venerdì 15 luglio 2011

Dipingere il mare con il mare




Oggi, non senza nostalgia ripercorro un momento importante della mia vita, all'eta' di 26 anni ho letto un libro che al tempo mi aveva piu' che mai affascinato per quello che la narrazione puo' realizzare. La forza della scrittura e' che permette di immaginare un paesaggio, di far vivere dei personaggi, di incontrare delle situazioni, di scoprire angoli buii della propria interiorita', restando immobili, come una palestra della mente senza pero' muoversi da casa. Ero giovane e non avevo letto tanto, se non molto teatro alcuni classici americani e russi e Bruce Chatwin, essendo al tempo innamorato di viaggi ed esplorazioni.
L'incontro con il romanzo Oceano Mare di Alessandro Baricco mi offri la possibilità di una riflessione su qualche cosa di metafisico, di trascendente, personaggi con nomi improbabili, situazioni fuori dalla realta' quotidiana, parole distaccate dai contesti, ma soprattutto momenti di silenzio all'interno della narrazione.
Qui di seguito ho il piacere di condividere un brano che vi suggerisco di leggere con lentezza, cercando di sprofondare in questa sensazione senza tempo che si produce.


Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare – nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare.
Potrebbe essere la perfezione – immagine per occhi divini – mondo che accade e
basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità – verità – ma ancora una volta è il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso, un’inezia che basta da sola a sospendere tutto il grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella sabbia, impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona, minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata. A vederlo da lontano non sarebbe che un punto nero: nel nulla, il niente di un uomo e di un cavalletto da pittore.
Il cavalletto è ancorato con corde sottili a quattro sassi posati nella sabbia.
Oscilla impercettibilmente al vento che sempre soffia da nord. L’uomo porta alti stivali e una grande giacca da pescatore. Sta in piedi, di fronte al mare, rigirando tra le dita un pennello sottile. Sul cavalletto, una tela. È come una sentinella – questo bisogna capirlo – in piedi a difendere quella porzione di mondo dall’invasione silenziosa della perfezione, piccola incrinatura che sgretola quella spettacolare scenografia dell’essere. Giacché sempre è così, basta il barlume di un uomo a ferire il riposo di ciò che sarebbe a un attimo dal diventare verità e invece immediatamente torna ad essere attesa e domanda, per il semplice e infinito potere di quell’uomo che è feritoia e spiraglio, porta piccola da cui rientrano storie a fiumi e l’immane repertorio di ciò che potrebbe essere, squarcio infinito, ferita meravigliosa, sentiero di passi a migliaia dove nulla più potrà essere vero ma tutto sarà – proprio come sono i passi di quella donna che avvolta in un mantello viola, il capo coperto, misura lentamente la spiaggia, costeggiando la risacca del mare, e riga da
destra a sinistra l’ormai perduta perfezione del grande quadro consumando la distanza che la divide dall’uomo e dal suo cavalletto fino a giungere a qualche passo da lui, e poi proprio accanto a lui, dove diventa un nulla fermarsi – e, tacendo, guardare.
L’uomo non si volta neppure. Continua a fissare il mare. Silenzio. Di tanto in tanto intinge il pennello in una tazza di rame e abbozza sulla tela pochi tratti leggeri. Le setole del pennello lasciano dietro di sé l’ombra di una pallidissima oscurità che il vento immediatamente asciuga riportando a galla il bianco di prima. Acqua. Nella tazza di rame c’è solo acqua. E sulla tela, niente.
Niente che si possa vedere.

Soffia come sempre il vento da nord e la donna si stringe nel suo mantello viola. «Plasson, sono giorni e giorni che lavorate quaggiù. Cosa vi portate in giro a fare tutti quei colori se non avete il coraggio di usarli?» Questo sembra risvegliarlo. Questo l’ha colpito. Si gira a osservare il volto della donna. E quando parla non è per rispondere. «Vi prego, non muovetevi», dice. Poi avvicina il pennello al volto della donna, esita un attimo, lo appoggia sulle sue labbra e lentamente lo fa scorrere da un angolo all’altro della bocca. Le setole si tingono di rosso carminio. Lui le guarda, le immerge appena nell’acqua, e rialza lo sguardo verso il mare. Sulle labbra della donna rimane l’ombra di un sapore che la costringe a pensare “acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare” – ed è un pensiero che dà i brividi.
Lei si è già voltata da tempo, e già sta rimisurando l’immensa spiaggia con il matematico rosario dei suoi passi, quando il vento passa sulla tela ad asciugare uno sbuffo di luce rosea, nudo a galleggiare nel bianco. Si potrebbe stare ore a guardare quel mare, e quel cielo, e tutto quanto, ma non si potrebbe trovare nulla di quel colore. Nulla che si possa vedere. La marea, da quelle parti, sale prima che arrivi il buio. Poco prima. L’acqua circonda l’uomo e il suo cavalletto, se li piglia, adagio ma con precisione, restano li, l’uno e l’altro, impassibili, come un’isola in miniatura, o un relitto a due teste.Plasson, il pittore. Viene a prenderselo, ogni sera, una barchetta, poco prima del tramonto, che l’acqua gli è già arrivata al cuore. È così che vuole, lui. Sale sulla barchetta, ci carica il cavalletto e tutto, e si lascia riportare a casa. La sentinella se ne va. Il suo dovere è finito. Scampato pericolo. Si spegne nel tramonto l’icona che ancora una volta non è riuscita a diventare sacra. Tutto per quell’ometto e i suoi pennelli. E ora che se n’è andato, non c’è più
tempo. Il buio sospende tutto. Non c’è nulla che possa, nel buio, diventare vero.

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